Quando mi annoiavo mortalmente ad ascoltare a tavola i discorsi dei grandi, poter sognare di correre fuori a perdifiato verso le libere acque del fiume o scivolar via dalla prigione di parole senza senso, verso l’incanto dei colori e profumi dell’orto/giardino in fiore, era la via di fuga del mio desiderio di bambino intrappolato nella consuetudine del pranzo insieme.

In altri momenti, quando non ero impaziente ed affamato attenzioni, esploravo con calma ogni angolo dell’orto: le tracce di sigaro masticato che mio nonno lasciava sulle pertiche orizzontali della siepe, le tracce lucide del passaggio di una lumaca e i fiorellini nascosti nella penombra, insalate e alberelli da frutto,  e cavoli, melagrane o altro, secondo le stagioni.

Ma da aprile, per molti mesi, erano le rose fra il giallo, il rosa e l’aranciato ad attrarre i miei occhi, naso e bocca e tutto il viso. Ricordo nitidamente, come squarci su un altro mondo, numerose impressioni di quel tempo fra i due/tre anni e i cinque/sei, i momenti contemplazione estatica e le sensazioni assolute, quando dondolavo lievemente la testa sul il ritmo del respiro – le guance accanto alle guance delle grandi rose, chiusi gli occhi – e silenziosamente ero calmato e colmato da una gioia sconosciuta ed ineffabile.

L’orto ha continuato ad accogliere delicatamente, anche nel freddo e nebbioso inverno, la malinconia del tempo che consuma ogni forma e il trepidante emergere di altre gemme e fiori, come  visi cari. Oltre a chiocciole e lumache, nel mio piccolo Walden  ho spiato ed osservato il topolino, la talpa, la biscia, il rospo, il gatto alla ricerca dell’erba per digerire, l’uccellino caduto dal nido e recuperato dalla madre agitatissima, altri pulcini di terra, farfalle variopinte e libellule smaltate di ogni forma e colore.

Evitare di graffiarmi entrandovi di corsa in picchiata verso il rifugio antiaereo scavato proprio lì, dopo l’urlo della sirena che annunciava i bombardamenti  in arrivo, era una difficile arte che avevo imparato, imitando gli aerei che passavo e salendo anch’io fra le nuvole, per scendere vertiginosamente e planare fra le piante in fiore di fave e di piselli. Rifugio, conforto, ristoro. Solo la dimora avvolgente del fienile, in cui abitare misteriosamente ruvide grotte e cunicoli, soprattutto d’inverno, era altrettanto accogliente.

Trenta anni dopo facevo l’insegnante e ogni mattina, prima di andare ad accompagnare nella crescita i miei allievi, indugiavo nel mio nuovo orto/giardino, per una piccola contemplazione e benedizione di quelle forme di un’unica vita, che poco dopo avrei ritrovato in classe, e rispetto a cui avvertivo un senso di responsabilità e onore. Il sentimento di camminare accanto, condividendo il piccolo tempo dato e la comune luce, parlando colori e forme, silenzi e ritmi. Al ritorno da scuola, non entravo mai direttamente in casa, passando invece dall’orto, per osservare deliziato i molti piccoli cambiamento verificatosi nel frattempo e rilassarmi e ristorarmi nel sorriso furtivo del generoso “genius loci”.

La dimensione dei giardini nel tempo è stata mutevole, a seconda degli scopi a cui erano destinati, raggiungendo nell’Estremo Oriente l’aspetto di miniature, come i “paesaggi in vasca” cinesi, in conformità al simbolismo religioso che coglieva  l’intima corrispondenza  fra quelle forme ridotte e artificiali e l’universo dei valori filosofici, estetici e metafisici dei loro costruttori, che le rappresentavano anche in forma pittorica o letteraria. Il meditante taoista che vede nell’anfratto microscopico della piccola pietra la grotta di una montagna, e le sente abitate entrambe dagli stessi dei, sa che ogni piccola cosa può diventare il nido di un’immensità.

Il giardino odierno, creato un tempo per raccogliere e proteggere le piante alimentari e da fiore, riordinandole secondo criteri di una superiore armonia, umana e divina, viene insidiato non più dall’oscurità incombente della selva o dall’aridità del deserto, ma da quelle del profitto senza misura, che fa scempio planetario della biodiversità, confinandone i semi nei bunker di una salvaguardia indispensabile ed inquietante, date le prospettive da cui derivano. Intanto molti che se lo possono permettere, ed anche businessmen aspiranti all’ecolifestyle, si dedicano al giardinaggio antistress, mentre assurge a nuova gloria il gardner designer.

Forse mai tanta attenzione è stata rivolta ai giardini da riviste, libri e siti. Un esempio recente, i   cinque volumi di “Gardening”, della Royal Horticultural Society (ed. Repubblica-Espresso), riguardante il giardinaggio vero e proprio; la collana “Oltre i giardini” che l’editore Bollati Boringhieri dedica interamente al tema in chiave multidisciplinare, con titoli quali “Il giardino come spazio interiore”, di R. Ammann, e “Il bello di essere pianta”, di P. Blanc.

La più grande gioia è per me vedere a scuola l’intereresse per la natura in modo non aridamente libresco: un esempio viene dalla nascita in Germania dei Waldkindergarten, giardini d’infanzia delle foreste intorno a Francoforte, in cui i bambini possono vivere all’aria aperta, in contatto con alberi e animali, giocare senza il timore di sporcarsi, accendere e governare fuochi, sviluppando una radicata intelligenza ambientale, attenzione e immaginazione creativa. Apre un varco alla speranza anche l’interesse alimentato per anni da parte del Movimento di Cooperazione Educativa e ravvivato da F. Capra (“Ecoalfabeto”, Stampa Alternativa, Viterbo 2005)  per la cura dell’orto a scuola, coinvolgendo i bambini in un’attività multidisciplinare che le  apra ad un pensiero ecologico sistemico necessario alla nostra sopravvivenza.

Educare precocemente alla responsabilità verso la terra e alla corrispondenza con le forze e la bellezza della natura di cui siamo parte, può aprire ad un sentimento di comunione che travalica ogni forma di vita, poiché ciò che si trova nell’uomo e ciò che si trova nel sole, è unico e chi trascende le diverse forme, può cantare, con i saggi dell’India antica: Io sono cibo, io sono mangiatore di cibo, io sono colui che connette insieme le due cose (“Taittitiya Upanisad”).

 

Renzo Rossin
Psicologo, formatore, supervisor counselor. Fondatore EES, grande promotore dell’Ecopsicologia in Italia. Socio onorario IES

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Psicologa, counselor supervisor e giornalista. Promuove l'Ecopsicologia in Italia dal 1996. Ha studiato con uno studente diretto di Roberto Assagioli e lavora in formazione per la crescita personale in ambito professionale e organizzativo. Ha completato la sua formazione con seminari di aggiornamento professionale in California, Olanda e Spagna, con alcune delle figure più importanti in questo campo: Fritjof Capra, Joanna Macy, Molly Young Brown e Anna Halprin. È cofondatrice e docente del CREA, Scuola di Counseling umanistico-esistenziale, a Milano. Ha fondato nel 2004 e dirige a Osnago (Lecco), "Ecopsiché - Scuola di Ecopsicologia", che unisce consapevolezza personale ed etica ambientale. Ecopsiché è una scuola IES e offre corsi di formazione e corsi per professionisti nel mondo della psicologia e dell'educazione "in natura, con la natura, per la natura". È co-fondatrice di IES, membro del direttivo dell'Associazione e Charter IES per l'Italia. Autrice di numerosi libri sull'autorealizzazione, tra questi: "Ecopsicologia - Crescita personale e consapevolezza ambientale" (Urra-Feltrinelli 2006, in italiano).